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L’interesse per la tutela psicofisica del lavoratore continua a trovare riscontro in giurisprudenza con una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sul tema dello straining.

Questo fenomeno rappresenta una condizione di stress sul luogo di lavoro, condizione che il lavoratore subisce proprio per effetto di un’unica azione ostile (nonché, nel caso di specie, con un obiettivo discriminatorio), che viene intenzionalmente perpetrata dallo strainer ed è tale da provocare in chi la subisce effetti negativi duraturi. L’elemento differenziale con l’affine fenomeno del mobbing è rappresentato dall’assenza della molteplicità e della continuità delle azioni vessatorie; rispetto al mobbing, infatti, lo straning si pone come una forma attenuata del primo per il cui configurarsi è sufficiente la presenza anche di un’unica azione finalizzata ad un illegittimo peggioramento della condizione lavorativa di chi la subisce.

La Corte di Cassazione, a conferma del precedente indirizzo giurisprudenziale (cfr. Cass. Civ. sent. n. 3291 del 19.02.2016), ha ribadito, con la recente pronuncia 3977/2018, che in caso di straining, se le azioni ostili si rivelino produttive del danno all’integrità psicofisica del lavoratore, può trovare fondamento la richiesta di risarcimento danno fondata sull’art. 2087 c.c. L’orientamento giurisprudenziale della Corte, infatti, continua ad offrire un’interpretazione estensiva di tale norma, ormai svincolata dal campo della prevenzione antinfortunistica, in virtù del rilievo costituzionale dei beni essenziali della salute, della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona, nonché della buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, dovendo il datore di lavoro astenersi dal porre in essere azioni che comportino condizioni lavorative stressanti e lesive proprio dei sopracitati diritti fondamentali del lavoratore.

In conclusione, il pregiudizio subito dal lavoratore vittima di straining, giustifica la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c. qualora l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad una responsabilità del datore di lavoro che, con il suo comportamento colposo ovvero con l’inadempimento di specifici obblighi ovvero ancora con il mancato rispetto del principio di buona fede, abbia causato in capo al lavoratore tale pregiudizio anche se la condotta illecita è stata saltuaria.

 

In collaborazione con l’avv. Daniele Formicola.

Cass. ord. 3977 2018

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