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Lo scorso 23 aprile la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea è nuovamente intervenuta sull’applicazione della Direttiva 2000/78, concernente le discriminazioni nell’ambito dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e volta a rendere effettivo, negli Stati membri dell’UE, il principio di parità di trattamento, quantomeno – appunto – nel mondo del lavoro.

La pronuncia prende le mosse dalla seguente fattispecie.

In una trasmissione radiofonica, un avvocato italiano ha dichiarato di non voler assumere e di non volersi avvalere, all’interno del proprio studio, della collaborazione e dell’attività lavorativa di persone omosessuali.

Ritenendo che le dichiarazioni dell’avvocato costituissero una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, l’associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford, che si occupa – oltre che della divulgazione e della formazione in materia di diritti delle persone omosessuali – anche della difesa in giudizio delle stesse quando vedono lesi i propri diritti, ha convenuto in giudizio il suddetto avvocato chiedendo il riconoscimento della natura discriminatoria delle dichiarazioni nonché il risarcimento dei danni, il tutto ai sensi della Direttiva 2000/78 UE nonché della legge nazionale di recepimento, costituita dal D. Lgs. N. 216/2003.

Il ricorso è stato accolto in primo grado e la sentenza è stata poi confermata in appello, con la conseguenza che l’avvocato ha presentato ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte ha adito, in via pregiudiziale, la CGUE, chiedendo, oltre al resto, un’interpretazione della Direttiva sulla nozione di “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro” e, in particolare, se, per trovarsi nella situazione di “accesso all’occupazione” debba almeno essere in corso una trattativa individuale e/o un’offerta al pubblico di lavoro e, in caso contrario, se delle semplici dichiarazioni non siano tutelate dalla libertà di espressione.

In estrema sintesi, nella sua pronuncia la CGUE, dopo un excursus sulla normativa europea e nazionale interessata dal caso di specie, chiarisce tre punti fondamentali.

Il primo riguarda il fatto se “tenuto conto delle circostanze nelle quali tali dichiarazioni sono state effettuate (n.d.r.: nel corso di una trasmissione radiofonica di intrattenimento e sebbene non fosse né in corso né programmata, da parte dell’avvocato, una selezione di personale)”, esse possano rientrare nel concetto di “occupazione e accesso al lavoro.

 

Al riguardo, il ragionamento della Corte parte da un presupposto di non poca rilevanza: la “direttiva non rinvia al diritto degli Stati membri per definire le condizioni di occupazione e accesso al lavoro, perciò l’interpretazione che di esso concetto si dà deve essere uniforme per tutti gli Stati membri e deve discendere dal contesto in cui la Direttiva è stata emanata e dagli obiettivi che essa si pone di raggiungere.

L’occupazione e il lavoro costituiscono elementi chiave per garantire a tutti pari opportunità e contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale.

In particolare, secondo i “considerando” della Direttiva “l’occupazione e il lavoro costituiscono elementi chiave per garantire a tutti pari opportunità e contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale (n.9) e una discriminazione basata su uno dei fattori di rischio (nel caso di specie, l’orientamento sessuale), può pregiudicare “il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone” (n. 11).

Seguendo poi i propri precedenti giurisprudenziali e, in particolare, la sentenza “Asociația Accept, C-81/12”, la Corte di Giustizia ha quindi dichiarato che sono idonee a rientrare nel concetto di “occupazione e accesso al lavoro” le dichiarazioni pubbliche relative ad una determinata politica di assunzione, anche se:

– “il sistema di assunzioni in questione non si fondi su un’offerta pubblica o su una trattativa diretta”,

– anche se dette dichiarazioni “non provengano da una persona avente la capacità giuridica di definire direttamente la politica delle assunzioni del datore

– e anche se “nessuna trattativa ai fini di un’assunzione fosse in corso”.

E’ però necessario, secondo la Corte, che tali dichiarazioni possano essere ricollegabili  – effettivamente e non solo ipoteticamente – alle condizioni di accesso al lavoro presso il datore di lavoro in questione.

Ciò significa che “lo status dell’autore delle dichiarazioni considerate e la veste nella quale egli si è espresso, …(omissis)… devono dimostrare che tale autore è egli stesso un potenziale datore di lavoro, oppure che egli è, di fatto o in diritto, capace di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni, …(omissis)… oppure che egli è, quantomeno, suscettibile di essere percepito dal pubblico o dagli ambienti interessati come capace di esercitare un’influenza siffatta”.

In tal caso, le dichiarazioni rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva 2000/78 CE.

Il secondo passaggio importantissimo effettuato dalla Corte di Giustizia concerne i rapporti tra una siffatta interpretazione della Direttiva – e, quindi, la natura discriminatoria di una tale tipologia di dichiarazioni concernenti l’occupazione e l’accesso al lavoro, seppur pronunciate da un soggetto che non sta facendo politica di assunzione in quel momento e seppur pronunciate nell’ambito di una trasmissione radiofonica – con l’esercizio della libertà di espressione da parte del soggetto.

Sul punto, la Corte è chiara:

la liberta di espressione “non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare delle limitazioni, a condizione che queste siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità, il che vuol dire che le limitazioni devono essere necessarie e rispondere a obiettivi generali di interesse dell’Unione, qual è la garanzia del principio di parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro nonché la realizzazione di un elevato livello di occupazione sociale, citati tra le finalità che la Direttiva 2000/78 si propone di perseguire.

Nel caso del bilanciamento tra libertà di espressione e principio di parità di trattamento, le limitazioni sono espressamente previste nella Direttiva e si applicano al solo fine di raggiungere gli obiettivi di essa: sono dunque giustificate e proporzionate, nonché necessarie per garantire i diritti in materia di occupazione e di lavoro.

Sulla base di entrambi questi ragionamenti, le conclusioni cui la Corte giunge sul secondo quesito posto dalla Corte di Cassazione sono le seguenti:

la nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» contenuta all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico”.

Il terzo punto fondamentale chiarito dalla Corte riguarda il primo quesito formulato dalla Suprema Corte italiana e cioè:

se la direttiva 2000/78 debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.

In sintesi, chiede la Corte di Cassazione se l’associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – Rete Lenford, essendo associazione senza scopo di lucro deputata per Statuto alla difesa dei diritti delle persone LGBTI, possa attivare un giudizio antidiscriminatorio e chiedere il risarcimento di un danno e ciò anche in assenza di una persona identificata come lesa dalla condotta discriminatoria.

Su questo quesito la CGUE, previa specificazione della possibilità degli Stati membri di legiferare sul punto, specifica che è lo Stato stesso, nel momento in cui recepisce la Direttiva 2000/78, a scegliere se attribuire siffatta legittimazione attiva alle associazioni e in che termini, nonché a stabilire la portata delle sanzioni irrogabili “tenendo presente che tali sanzioni devono …(omissis)… essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi sia alcuna persona lesa identificabile”.

Conclude sul tema la Corte che “la Direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno”.

La portata di questa sentenza è notevole.

Essa, infatti, incide non solo sullo Stato nell’ambito del quale è stato promosso il rinvio pregiudiziale, bensì su tutti gli Stati membri dell’UE, i cui giudici nazionali devono conformare le proprie pronunce al diritto dell’Unione Europea.

Anche i temi che affronta sono di grande interesse e non solo per le discriminazioni basate sul fattore “orientamento sessuale”, bensì su tutte le discriminazioni, a prescindere dal fattore di rischio.

Viene chiarita la nozione di “datore di lavoro” effettivo e potenziale e come basti essere percepito come tale per incidere sul mercato del lavoro e violare gli scopi della Direttiva.

Viene specificato che un contesto di intrattenimento – non quindi un annuncio di ricerca o un bando – può comunque essere un contesto dal quale le dichiarazioni possono promanare e incidere sulla libertà delle persone a rischio discriminazione di candidarsi e comunque di promuovere liberamente e serenamente la propria professionalità nel mercato del lavoro.

Viene sottolineato che tale mercato è uno dei luoghi ove l’individuo sviluppa la propria personalità e la propria realizzazione sociale e occupazionale, nonché che esso deve essere tutelato dalle istituzioni, nel perseguimento degli obiettivi occupazionali.

Viene spiegato che il diritto che ciascun individuo ha di muoversi liberamente nel mercato del lavoro è un diritto che non può essere conculcato dalla libertà di espressione altrui, seppur entrambi siano principi tutelati dalla Carta dell’Unione.

Viene, infine, precisato che le associazioni che operano per la tutela delle discriminazioni – se previsto nella normativa nazionale di recepimento – possono agire autonomamente a tutela di una condotta discriminatoria, anche quando non è individuabile una persona lesa, e possono ricevere un risarcimento del danno.

Ma la sintesi non rende: leggetela, è bellissima.

Sentenza CGUE Avvocatura per i diritti LGBTI Rete Lenford C- 507 2018

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