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Nella Causa C – 494/16, la Corte di Giustizia dell’UE ha dichiarato che la normativa italiana, riguardante il regime sanzionatorio applicabile in caso di abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine nel settore del pubblico impiego, non é in contrasto con la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, di cui alla direttiva 1999/70/CE.

La Corte è stata adita dal Tribunale italiano per offrire la corretta interpretazione della clausola 5 dell’accordo, posto che vengono ivi individuate le misure idonee a prevenire l’indebita successione di rapporti di lavoro a tempo determinato all’interno degli Stati Membri.

In particolare, al fine di prevenire tali abusi, il punto 1 della clausola 5 sancisce la necessità che i singoli Stati di adottino misure attinenti a:

  • ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti;
  • la durata massima totale degli stessi;
  • il numero di rinnovi di questi ultimi.

La norma fissa quindi agli Stati Membri un obiettivo generale, avente ad oggetto la prevenzione dell’illegittima precarizzazione del rapporto di lavor,o lasciando però al diritto interno le modalità di attuazione di tale obiettivo.

In Italia sul tema ha avuto modo già di pronunciarsi la Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. sent. n. 5072/2016),stabilendo che il dipendente pubblico che risulti essere vittima di un’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato per un periodo che superi i trentasei mesi, abbia diritto al risarcimento del danno subito, quantificabile tra le 2,5 e le 12 mensilità dell’ultima retribuzione percepita e salva la prova del maggior pregiudizio, sofferto per la perdita di opportunità o di trovare un impiego alternativo o di poter superare un concorso per la medesima posizione poiché mai indetto. Al contrario del settore privato, infatti, in quello pubblico non opera la conversione del contratto di lavoro a termine in contratto a tempo indeterminato in caso di illegittima prosecuzione del rapporto lavorativo. Ciò in virtù dell’art. 97 della Costituzione che impone alle pubbliche amministrazioni di assumere personale solo a seguito di una procedura concorsuale pubblica.

L’unica tutela, dunque, per i lavoratori pubblici è quella dell’indennità forfettaria.

 

Da queste premesse è partita la domanda del Tribunale italiano rimettente nei confronti dei giudici europei, al fine di capire se, interpretando la clausola 5 dell’accordo quadro, i lavoratori del settore pubblico dovessero godere oltre all’indennità forfettaria anche di un’indennità diretta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, in modo da rendere la disciplina del settore pubblico analoga, in termini di tutela, a quella del settore privato.

 

La Corte di Giustizia, investita della questione, ha affermato che la clausola 5 dell’accordo non impone agli Stati membri la trasformazione, in caso di abuso, dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato e, di conseguenza, non può interpretarsi nel senso che imponga agli Stati membri di concedere, in assenza della trasformazione, un’indennità che sia sostitutiva di essa.

Secondo la Corte, la normativa italiana, che prevede, in caso di ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico, il diritto del lavoratore a un’indennità forfettaria compresa tra le 2,5 e le 12 mensilità dell’ultima retribuzione per compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere un ulteriore risarcimento del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di migliorare la propria posizione lavorativa, costituisca una soluzione compatibile con la normativa comunitaria.

E’ infatti riservato agli Stati Membri un margine di discrezionalità nella scelta degli strumenti più idonei a contrastare l’abuso dei contratti a termine e non è previsto alcun obbligo di far conseguire, all’abuso dei contratti a tempo determinato, la stabilizzazione del rapporto di lavoro.

Ciò anche alla luce del fatto che il D. Lgs. n. 165/2001, contenente appunto la normativa sul pubblico impiego, contiene alcune altre misure afflittive nei confronti della pubblica amministrazione che pone in essere una tal condotta abusiva, tra le quali, ad esempio, l’obbligo per le amministrazioni di recuperare, nei confronti del dirigente responsabile, le somme pagate al lavoratore danneggiato (art. 36, comma 5) o il divieto, per le amministrazioni che violano le regole sul reclutamento e sull’impiego, di procedere ad assunzioni nei tre anni successivi alla violazione.

Spetterà pertanto al giudice nazionale valutare se il complesso delle misure adottate dallo Stato membro abbiano effettivamente un carattere dissuasivo tale da prevenire l’abusiva reiterazione di rapporti determinati nel settore pubblico.

 

Articolo scritto in collaborazione con l’avv. Daniele Formicola.

 

C 494 16 sent. 7.3.18

Direttiva 1999 70 CE e Accordo Quadro su CTD

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