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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito che il controllo, da parte del datore di lavoro, delle email personali del dipendente, anche se esse vengono inviate da un account aziendale, è gravemente lesivo del diritto alla vita privata, tutelato dall’art. 8 della Convenzione EDU.

Nel caso sottoposto alla cognizione della Corte, un dipendente era stato licenziato per aver spedito, dall’account aziendale, delle email ai familiari.

La Grande Camera ha chiarito che il diritto alla vita privata rientrante nella tutela dell’art. 8 della Convenzione deve intendersi in senso ampio, ricomprendente ogni aspetto della vita personale dell’individuo e ogni possibilità che costui ha di sviluppare la propria identità sociale, ivi incluse, quindi, anche le corrispondenze che vengono effettuate nel corso del tempo dedicato all’attività lavorativa.

Secondo la Corte, quindi, gli Stati nazionali devono emanare una normativa che sia sintesi, da un lato, della necessità del datore di lavoro di regolare le comunicazioni che i dipendenti effettuano durante l’orario di lavoro e, dall’altro, della esigenza di garantire al lavoratore il rispetto della propria vita privata.

Ciò si avrebbe, ad esempio, in presenza di un’adeguata preventiva informativa del futuro controllo – controllo che dovrà essere ben delimitato in termini di ampiezza e di accesso dei soggetti alle informazioni private del dipendente -, nonché di gravi motivi che rendano legittimo il controllo medesimo.

Nel nostro ordinamento, il riformato art. 4 dello Statuto dei lavoratori contiene una clausola di raccordo tra, da una parte, il diritto del datore di lavoro di utilizzare, per fini connessi al rapporto, le informazioni raccolte attraverso i controlli e, dall’altra parte, il rispetto del Codice della Privacy, espressamente richiamato dal comma 3 della norma: questa clausola di raccordo é da individuarsi nella preventiva informativa sui futuri controlli e nel richiamo, all’interno del rapporto lavoristico, della disciplina contenuta nel D. Lgs. n. 196/2003.

 

CASE OF BARBULESCU v. ROMANIA

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