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Un’impresa privata che fornisce servizi di accoglienza assume una signora di fede musulmana.

All’epoca dell’assunzione, vigeva la prassi secondo la quale i dipendenti non dovevano indossare segni visibili della propria religione, filosofia o appartenenza politica, nel rispetto della posizione di assoluta neutralità che l’azienda aveva e voleva mantenere.

La signora di fede musulmana comunica al datore di voler indossare il velo e l’impresa cristallizza per iscritto quella che, fino a quel momento, era stata la prassi, vietando ai dipendenti di “indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi”.

La signora insiste e viene licenziata.

Tale licenziamento non costituisce una discriminazione diretta poiché non v’è stata alcuna disparità di trattamento tra la signora musulmana e gli altri dipendenti (il divieto era valido per tutti, a prescindere dalla religione pratica o dall’ideologia di ciascuno).

Potrebbe, invece, essere individuata una discriminazione indiretta qualora “l’obbligo apparentemente neutro in essa contenuto comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia” e sempre che non sia giustificato dal perseguimento di una finalità legittima attraverso mezzi appropriati e necessari.

Nel caso di specie, sarà quindi compito del Giudice del rinvio verificare:

a) se il perseguimento della politica di “neutralità” sia una finalità legittima e necessaria tale da consentire di apportare delle restrizioni alla libertà religiosa;

b) se il divieto di indossare il velo sia un mezzo appropriato per raggiungere la finalità legittima della “neutralità”;

c) se tale divieto nei confronti della signora fosse necessario per tale perseguimento (o l’impresa avrebbe potuto, ad esempio, proporre alla dipendente un posto non a contatto col pubblico, rispettando così la libertà religiosa della lavoratrice, da un lato, e perseguendo le proprie legittime finalità aziendali, dall’altro).

 

Questo il senso della pronuncia della Corte che, coerentemente con i propri precedenti, interpreta e attua il principio di uguaglianza tutelato dalla Direttiva 78/2000, bilanciandolo con l’autonomia dell’impresa: la discriminazione diretta non é configurabile perché non c’è la diversità di trattamento, la discriminazione indiretta potrebbe sussistere e, perciò, devono essere fatte le opportune verifiche.

 

Corte Giust. UE, Grande Sezione, sentenza 14 marzo 2017, causa C-157/15

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